RACCONTI
Il cucciolo
Genere Horror
Autore Filippo Semplici
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Era già più di un quarto d’ora che ero chiuso là dentro. Il tempo sembrava scorrere con inesorabile lentezza mentre la poca luce solare che ancora filtrava dalla grata in alto, mi indicava severamente l’imminente arrivo del tramonto. Dannazione! Eppure Meggan me l’aveva ripetuto mille volte che la porta della cantina era difettosa e che andava sistemata al più presto e io che cosa le rispondevo? “Certo, certo domani”. Domani. L’avevo ribadito anche poco prima che vi rimanessi chiuso dentro e ora, il ricordo di quelle parole mi provocava scatti di rabbia incontrollata. Tentai di aiutarmi con utensili vari ma niente di tutto ciò che usavo serviva a cambiare qualcosa. Sembrava proprio che quella maledetta serratura arrugginita avesse deciso di spirare quella sera.
Comunque, la situazione non era così grave come poteva apparire; sarebbe bastato aspettare Meggan al rientro dal lavoro, verso le sette. Una cosa era certa: non sarei più sceso là sotto a prendere la scorta di birra, ci sarebbe andata mia moglie, d’ora in poi.
Anzi, la birra l’avremmo tenuta su e la fottuta porta mattacchiona l’avrei abbattuta io stesso, per sostituirla con un’altra ultramoderna. Al diavolo tutto.
Il gattino, Fluffy, si strusciò amorevolmente contro la mia gamba. Il suo pelo grigio risplendeva innaturalmente al chiarore di quella sera di marzo. Era sceso con me prima che la porta si richiudesse inaspettatamente alle nostre spalle ignare, ed ora anche lui era un prigioniero inconsapevole di quelle quattro mura scrostate e annerite dal passare degli anni.
Respiravamo aria umida e marcia, compressa in un’area di sei metri quadrati, in compagnia di miriadi di insetti che sembravano ridere di noi. Ah, ma sarebbe venuto anche il loro turno, certo. Dopo l’odiosa porta, gli insetti. Un bell’insetticida di almeno cinque sterline, e poi sarei stato io a ridere di loro.
Mi venne in mente una cosa: non avevo governato Fluffy. Già, poteva sembrare idiota a dirsi ma ero molto attaccato a quel piccolo micino tigrato dell’età approssimativa di cinque mesi; lo avevo trovato tempo fa nei pressi di una vasta prateria poco fuori Londra, vicino ad una casa abbandonata, e mi aveva così intenerito che avevo deciso senza ripensamenti di portarlo con me. E Meggan non aveva avuto nulla da ridire. Così il micino poté vantarsi di aver trovato un nome e una famiglia nel più breve tempo possibile. Avrei voluto addomesticarlo, ma non sapevo da che parte cominciare; acquistai una lettiera blu per i suoi bisogni, certo, ma per il resto, stop. La mia cultura sui “quattrozampe” e i felini in particolare terminava là.
Ci fu una cosa che turbò un po’ Meggan, a dire il vero. Oh, Fluffy le piaceva certo, lo accudiva come se fosse un bambino, ma quando le raccontai dove l’avevo trovato, fu come se le fosse caduto un secchio pieno di calce in testa. La sua espressione di gioia cambiò. Anzi a dirla tutta, il suo animo fu letteralmente rapito da una profonda inquietudine che non se ne andò neanche l’indomani, dopo una buona dormita.
Quando le chiesi il perché del suo velato pallore, mi parlò confusamente di un certo Dottor Heinker, un tizio strampalato e molto riservato. E cosa c’entrava con Fluffy? Beh, mi sembrò di capire che le malelingue locali sparlassero a proposito di certi suoi esperimenti o cose del genere, pazzie talmente folli e sanguinose che nessuno osava raccontare e che i vecchi del paese si limitavano a bisbigliare incomprensibilmente. Sembrava anche che avesse subito varie condanne per crimini contro l’umanità o cose del genere. Un ex nazista secondo alcuni, un illustre e stimabile scienziato secondo altri. Comunque Meggan proseguì e disse che quel tizio era stato sbattuto fuori da diversi ordini medici a causa di assurde teorie da lui sostenute con troppa insistenza; così il “povero dottore”, esasperato dal mondo che bloccava i suoi progetti, si era ritirato presso la cittadina di Leeds dove aveva consumato la sua vita insieme alla sua unica inseparabile compagna: la pazzia.
Secondo il quadro che mia moglie aveva tracciato di quel bizzarro individuo, potei immaginare in che modo egli usasse la scienza medica come tentata giustificazione ai propri crimini. Il racconto di Meggan terminò quando disse che Heinker conduceva esperimenti su animali vivi.
Il suo consiglio: abbandonare Fluffy.
Risi forte. Mi resi conto solo allora di quanto mia moglie fosse banalmente superstiziosa e soggetta alle influenze delle tradizioni locali. Povera Meggan. Era una gran brava donna, certo, col suo faccino da angioletto avvolto in quei riccioli d’oro ma evidentemente avevo sopravvalutato la sua intelligenza. Era un’ottima cuoca e a letto ci sapeva fare molto bene, perché quindi rovinarsi così per delle stupidaggini? Io volevo bene a Fluffy e quelle parole mi innervosirono.
A proposito..., dov’era finito? Mi guardai intorno e cercai il nocciolo dei miei pensieri. Eccolo là. Si era sistemato in fondo ad un angolo della cantina e sembrava che dormisse, avvolto su se stesso come un fachiro. Meglio così.
Intanto la luce del sole si stava facendo sempre più debole, il suo calore si affievoliva mentre la notte attendeva con ansia di dare il cambio al giorno. Le prime, timide stelle, facevano capolino da un cielo color turchese e la luna ritardava la sua entrata in scena.
Meggan ancora non si vedeva, benedetta donna. E Fluffy non aveva mangiato. Fluffy. Quando il mio cervello cominciò a elaborare di nuovo, mi resi conto con stupore, che quel cucciolo avrebbe occupato anche i miei nuovi pensieri a venire. La mia mente era rimasta bloccata sul consiglio di mia moglie. Riavvolsi mentalmente il nastro della memoria e tornai in cima, all’inizio, quando spiegavo a Meggan dove avevo trovato il cucciolo. Dove l’avevo trovato? Ma dentro la proprietà del fantomatico dottor Heinker, naturalmente, altrimenti quella favola non sarebbe mai venuta fuori, non vi pare? Coincidenze, da film horror di serie zeta. E allora? Era solo una prateria, la casa era abbandonata da secoli. L’unico vero nemico da sconfiggere non era il fantasma di un pazzo ma la superstizione dei vecchi del paese. Probabilmente la povera bestia ronzava da quelle parti alla disperata ricerca di cibo.
Già, cibo, anche quello era un mistero per me; avevo acquistato confezioni su confezioni di quelle cose pubblicizzate presuntuosamente come “Cibo per gatti”, eppure Fluffy si limitava ad avvicinarsi alla ciotola, annusare e fare dietrofront. Non l’avevo mai visto toccare qualcosa che noi gli offrivamo. O quel cibo era davvero una porcheria oppure sapeva da sé quando e dove mangiare; spesso, infatti, se ne usciva a spasso per i prati e quando tornava si leccava i baffetti, con l’indubbia espressione di chi aveva appena consumato un pasto caldo. Ingrassava, e come se ingrassava, indice sicuro di avvenuta e continua alimentazione. E se proprio dovevo dirla tutta, anche se mi seccava andare a cercare il pelo nell’uovo per una questione insignificante come quella, mi ero accorto che il micino rispettava sempre gli stessi orari per i pasti. La mattina alle nove, il pomeriggio alle due, la sera alle sei. Allo scadere di quei minuti, lo vedevo rientrare sempre sazio e soddisfatto, con la stessa allegra espressione stampata su quel musino furbo da felino.
Lanciai un’occhiata furtiva all’angolo che lo ospitava. Adesso era vuoto. Lenti rumori smorzati come fruscii appena percettibili, stuzzicarono il mio attento e vigile udito.
Non so perché ma avvertii una goccia di sudore scivolarmi lungo la fronte e morire tra la barba ruvida. Tensione. Ma tensione per cosa? Sciocchezze. Certo era vero che le sei erano passate da quaranta minuti ed era vero che lui non aveva mangiato, ma non dovevo farmi suggestionare da azzardate ed inutili congetture da fantascienza. Da un momento all’altro avrei potuto vederlo spuntare con in bocca un topo, trasformato in spuntino provvisorio, tanto per placare la fame. E al diavolo Meggan e Heinker, per Dio! Uno era morto e l’altra lo avrebbe seguito a ruota se non fosse giunta in fretta.
Il sole era calato del tutto e fuori si stava animando un’improvvisa danza di foglie secche che, sospinte dalla brezza, si muovevano come guidate da fili invisibili. L’oscurità della notte avvolgeva tutto, come un esteso manto di tenebra.
I miei occhi stanchi focalizzarono due puntini rossi che brillavano sinistramente in un angolo buio della cantina. Altro sudore sul mio corpo, che si raffreddava immediatamente. Pensai che gli occhi dei gatti brillavano al buio, in effetti, ma non di quel colore, dovetti ammetterlo. Chiamai Fluffy, attesi il suo miagolio ma al mio orecchio giunse solo un gutturale grugnito come risposta.
Mi sentivo idiota, sciocco e codardo ma tuttavia non avrei saputo come altrimenti sentirmi in quel momento. Dispettosi pensieri negativi mi rimbalzavano nel cervello. Heinker. Esperimenti. Animali vivi. Forse ANCORA vivi. Heinker era pazzo, se mai era esistito. Si, perché chi mi assicurava dell’autenticità del racconto di Meggan? Meggan! Perché non arrivava a tirarmi fuori da quell’incubo? Il ringhio si ripeté, più forte, più deciso e sulla prima pensai di trovarmi di fronte a un cane, anche se mi rifiutavo di capire come fosse potuto entrare, rintanarsi laggiù e avere scelto proprio quel fottuto momento per farsi notare. Lunghe e sconnesse file di denti aguzzi fecero capolino dall’oscurità. Altro che cane. Altro che Fluffy. Quelle erano zanne da dinosauro.
Che cazzo di animale si era nascosto, laggiù? Avvertivo piccoli rumori smorzati che mi confondevano le idee; quale bestia poteva produrre suoni simili a tentacoli agitati, insieme a scricchiolii come di mille zampe che si dibattevano sul pavimento?
Soffocai un gemito di terrore. Ormai la mia mente era stata sequestrata e tenuta in ostaggio dalle ombre della paura e niente avrebbe potuto riscattare la sua perduta libertà. Niente. Persino la vista di Fluffy stesso, non mi avrebbe reso la tranquillità.
Tutte le mie comode e provvisorie ipotesi atte a razionalizzare la situazione in corso, andarono a farsi friggere quando da quel buio profondo si innalzò, lunga, imponente e maestosa, una mostruosa coda di scorpione.
Credo di aver gridato quando si abbatté su di me.

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